“Ma vi rendete conto di come siete?”: Samantha Favretto contro il degrado dei commenti online

“Ma vi rendete conto di come siete?”: Samantha Favretto contro il degrado dei commenti online

C’è un momento in cui anche chi vive quotidianamente i social, li usa per lavoro e comunicazione, sente il bisogno di fermarsi e dire basta. È quello che ha fatto l’influencer triestina Samantha Favretto, con una serie di storie pubblicate sui suoi profili, diventate in poche ore uno sfogo netto, diretto, senza filtri contro il clima di aggressività che domina sempre più spesso commenti, post e discussioni online.

Parole dure, ma lucidissime, che non nascono da una polemica personale, bensì dall’osservazione quotidiana di ciò che scorre sotto ogni contenuto pubblico: donne incattivite, uomini volgari, offese gratuite rivolte a persone che nemmeno si conoscono. Un panorama che Favretto definisce senza mezzi termini “desolante”.

“Non riesco a leggere un post che sotto ci trovo offese gratuite”, scrive, mettendo nero su bianco un sentimento diffuso ma raramente espresso con tanta chiarezza. Il suo non è un attacco a singoli utenti, ma una riflessione più ampia su come si sia normalizzata la violenza verbale, trasformando i social in luoghi di sfogo incontrollato.

Nel suo racconto emerge una domanda che è anche una provocazione collettiva: “Ma vi rendete conto di come siete?”. Un interrogativo che chiama in causa tutti, non solo chi scrive commenti aggressivi, ma anche chi osserva in silenzio, normalizzando certi comportamenti.

Favretto punta il dito soprattutto su offese a sfondo sessuale, commenti degradanti, insulti ripetuti, sottolineando come questi atteggiamenti non siano semplici “opinioni”, ma comportamenti che esistono già oggi all’interno di un perimetro giuridico preciso. Nelle sue storie ricorda infatti che esiste una legislazione che punisce tali condotte, anche se, come osserva amaramente, i casi di condanna si contano sulle dita di una mano.

Il confronto con l’estero diventa inevitabile. Samantha Favretto racconta la propria esperienza negli Stati Uniti, dove sta lavorando nell’ultimo anno, spiegando come simili comportamenti avrebbero conseguenze immediate e concrete: account chiusi senza preavviso, zero tolleranza, nessuna mediazione. Una differenza che mette in luce un problema culturale prima ancora che normativo.

“Solo in Italia viene permesso questo”, scrive, denunciando una sorta di lassismo diffuso che finisce per legittimare l’odio online come parte del gioco. Un gioco che però, a suo avviso, sta svuotando anche il piacere di informarsi, di leggere la cronaca, di seguire l’attualità. Perché sotto ogni notizia, spiega, si trovano ormai “disagi esemplari”.

Il tono dello sfogo diventa ancora più amaro quando Favretto ammette di non provare più interesse nel leggere commenti o discussioni pubbliche. Non per disimpegno, ma per stanchezza emotiva, per saturazione. Una sensazione che molti condividono ma che raramente trova spazio nel racconto pubblico.

E poi la frase più dura, quella che colpisce come uno schiaffo: “Purtroppo le donne sono le peggiori e quelle più violente”. Un’affermazione che non assolve nessuno e rompe una narrazione semplificata, ricordando che la violenza verbale non ha genere, e che spesso proprio tra donne si consumano attacchi feroci, giudizi spietati, mancanza totale di solidarietà.

Il messaggio finale non è consolatorio, ma necessario. Favretto invita a “ripigliarsi”, a recuperare un minimo di consapevolezza, perché continuare su questa strada significa, parole sue, fare figure “barbine”, prima ancora che danni agli altri.

Non è un post costruito per cercare consenso facile. È uno sfogo autentico che nasce dall’osservazione quotidiana dei social e che, proprio per questo, colpisce nel segno. Perché parla di tutti, non solo di chi commenta, ma anche di chi legge, condivide, tace.

In un’epoca in cui l’odio online viene spesso minimizzato o giustificato come libertà di espressione, la voce di Samantha Favretto si inserisce come una denuncia chiara, diretta, senza vittimismo, che chiede una cosa semplice ma rivoluzionaria: rispetto.