“Legge dei maranza”: imprenditore triestino esasperato dopo la sedia spaccata davanti a gelateria

“Legge dei maranza”: imprenditore triestino esasperato dopo la sedia spaccata davanti a gelateria

Nelle foto scattate davanti a una gelateria di Trieste si vede una poltroncina in finto rattan, appoggiata al muro accanto all’ingresso, con una gamba spezzata e il pezzo di plastica abbandonato a terra vicino a una mattonella del marciapiede già lesionata e forata al centro. È l’ultima scena di una storia che, secondo il racconto dell’imprenditore, va avanti da mesi: gruppi di ragazzini che occupano stabilmente l’area esterna del locale, si siedono in quattro sulla stessa sedia, si spingono, si danno pugni, trascinano le sedute sul marciapiede “come se avessero le ruote sotto” fino a romperle.

Per il titolare non è solo un danno materiale. A preoccuparlo è soprattutto il pensiero che, se qualcuno di quei ragazzi si fosse fatto male, la responsabilità “ultima” sarebbe ricaduta su di lui. Invece, questa volta, si è “solo” spezzata una gamba della poltroncina. Ma la misura, nelle sue parole, è colma.

Una “guerra” quotidiana con una baby gang tra 10 e 14 anni

L’imprenditore parla apertamente di una sorta di “guerra” quotidiana. Davanti alla gelateria – racconta – si ritrovano da tempo dieci, dodici, a volte venti ragazzini, poco più che bambini, “dai dieci ai quattordici anni”. Il loro punto di ritrovo sono proprio le sedute esterne del locale, pensate per i clienti ma, di fatto, trasformate in una piccola piazza privata.

Le rare volte in cui questi giovanissimi entrano per acquistare qualcosa, il titolare ricorda scontrini da cinquanta centesimi di caramelle, a fronte di biscotti “mangiati” senza pagare “per venti volte tanto”. Altre volte, secondo il suo racconto, si limitano a chiedere un bicchiere d’acqua “di spina”, cioè gratuito, aspettando che l’esercente giri le spalle per sgraffignare qualche prodotto. Il più sveglio del gruppo, dice il commerciante, arriva persino a indicare le telecamere agli amici, quasi a suggerire dove muoversi con più prudenza.

Dal rispetto per tutti al divieto per chi non consuma

Il titolare ci tiene a sottolineare che, per principio, non obbliga i passanti a consumare per potersi sedere sulle sedute esterne. Per lui è normale che un anziano possa riposarsi cinque minuti o che un genitore si sieda con il passeggino anche senza ordinare nulla; fa parte del vivere civile e di un modo aperto di intendere il ruolo del negozio in città.

Con questo gruppo di ragazzini, però, il rapporto si è incrinato quasi subito. La scena che racconta è quella di tutti i posti occupati, di ragazzi “stravaccati” sulle poltroncine, con i piedi sui tavoli, in un atteggiamento di sfida verso il locale e verso chi prova ad avvicinarsi. Da quel momento, il commerciante ha vietato in modo perentorio a quel gruppo di sedersi, in quanto non clienti.

La risposta, secondo il suo racconto, è stata una sorta di sfida alle regole: una caramella a testa, acquistata quasi per gioco, per “acquisire il diritto” di occupare nuovamente le sedute, questa volta da avventori a tutti gli effetti. Un braccio di ferro sottile, fatto di cavilli e provocazioni continue.

Inflessibilità, fermezza e il muro dei “fondamentali culturali” mancanti

Di fronte al ripetersi di episodi di maleducazione e piccoli furti, l’imprenditore dice di aver cambiato atteggiamento. Da una cortesia iniziale, forse data quasi per scontata, è passato a una linea di condotta sempre più inflessibile e ferma, con richiami, divieti e richieste chiare di allontanarsi.

Ma, nella sua analisi, il problema non è solo di ordine pubblico. L’esercente parla di fondamentali “culturali” mancanti, intendendo con questo non i titoli di studio, ma il rispetto delle regole base del vivere civile, di quei valori minimi di educazione e convivenza che dovrebbero essere condivisi da tutti. Quando quei principi non ci sono, sostiene, nessuna strategia oppositiva “legalmente consentita” è sufficiente. Le possibilità di intervento di un privato che rispetta le regole del Diritto sono limitate, mentre chi le viola sembra non avere freni.

L’esplosione di rabbia e la solitudine del commerciante

Il giorno in cui la sedia si rompe diventa, per il titolare, il punto di rottura emotivo. Racconta di aver affrontato il gruppo “con rabbia, con aggressività, con livore”: non da persona violenta, ma da persona esasperata. È una reazione umana che, secondo le sue parole, molti altri commercianti potrebbero comprendere.

Davanti alla scena, alcuni passanti si fermano, pronti a dargli manforte qualora dalle parole si fosse passati allo scontro fisico. L’immagine che restituisce è quella di un potenziale “uno contro dieci”, un adulto solo contro una decina di giovanissimi. C’è anche un cliente che, vedendo la tensione, lo invita alla calma, per evitare che la situazione degeneri in ulteriori provocazioni o in future ritorsioni.

La paura dei padri armati e la domanda su che società stiamo diventando

Il racconto dell’imprenditore si fa ancora più cupo quando evoca una paura più grande: quella dei padri che girano armati, con coltelli o pistole, nel segno di una presunta giustizia fai-da-te. Secondo il suo punto di vista, il clima sarebbe quello di un’appartenenza a un “clan” che offre protezione, ma che allo stesso tempo alimenta l’idea che ci si possa fare giustizia da soli, con metodi che nulla hanno a che vedere con le regole della convivenza civile.

Sono parole forti, che l’esercente affida a un ragionamento amaro: se per farci rispettare dovessimo rinunciare ai nostri principi di Diritto e adottare gli stessi metodi barbari, cosa resterebbe dello stato di diritto? E ancora, cosa sta diventando la nostra società se chi lavora, paga le tasse e cerca di rispettare la legge si sente in difficoltà nel difendere i propri spazi da chi li calpesta?

La “legge dei maranza” e il rischio di arrendersi al degrado

L’imprenditore sintetizza tutto questo in una formula amara: la “legge dei maranza”. Un’espressione che, nel linguaggio comune, richiama gruppi di ragazzi che ostentano prepotenza, non riconoscono autorità, non rispettano né luoghi né persone. Il rischio che denuncia è che, alla lunga, la città finisca per arrendersi a questa logica, lasciando soli i commercianti e i cittadini che cercano di opporsi restando dentro i confini della legge.

Nel suo sfogo c’è la paura che, se lo Stato e le istituzioni non riescono a garantire regole chiare e strumenti efficaci, la tentazione di “farsi giustizia da soli” possa diventare sempre più forte. Ed è proprio questa deriva che lui, pur esasperato, dice di voler evitare, continuando a credere nei “sani principi di Diritto” ma chiedendo, allo stesso tempo, che non siano solo parole.

Una domanda aperta a Trieste e alle sue istituzioni

Alla fine del suo racconto, l’imprenditore non lancia solo accuse: pone domande. Chiede cosa si possa fare davanti a comportamenti che definisce “menefreghisti” nella migliore delle ipotesi e “malavitosi” nella peggiore. Si domanda cosa stiamo diventando come comunità, dove andremo a finire se chi cerca solo di lavorare onestamente deve confrontarsi ogni giorno con un gruppo di ragazzini che non riconoscono più alcuna autorità.

Il suo appello è idealmente rivolto alle istituzioni, alle forze dell’ordine, ma anche alla città tutta. Perché quella sedia rotta sul marciapiede, con il buco nella mattonella e il pezzo di plastica a terra, è per lui soltanto l’ultimo segnale visibile di un malessere più profondo: la sensazione di non essere più rispettato come persona e come imprenditore, in una Trieste che, tra luci di Natale e folla festosa, deve fare i conti anche con queste piccole ma laceranti ferite quotidiane.