Un'Altra città: "Accoglienza diffusa dei rifugiati a Trieste funziona e va pontenziata"
Pubblichiamo da Un'Altra Città
Il sistema Trieste è stato creato per essere il primo progetto di accoglienza a gestione comunale, ma questo poi non è avvenuto. L’amministrazione comunale ha ritenuto più opportuno affidare il compito gestionale alla Prefettura di TS.
Un progetto positivo e degno di riconoscimento: queste sono alcune delle basi da cui è partito il dodicesimo incontro/dibattito sul programma elaborato da Un'altra città in vista delle elezioni amministrative di fine 2021.
A coordinare il dibattito Gianfranco Schiavone, Consorzio Italiano di Solidarietà e Direttivo Associazione Studi Giuridici Immigrazione, che ben conosce le dinamiche dei migranti, dei rifugiati e dell'accoglienza diffusa.
Di accoglienza si parla da più di vent'anni, dal 1998, ma solo tra il 2002 e il 2005, con 3 direttive dell'unione europea subentra l'obbligo giuridico.
Il sistema di accoglienza è strettamente legato e conseguente al diritto di asilo. L'accoglienza diffusa, non propriamente un'idea triestina, era in principio stata istituita come un'articolazione di servizi assistenziali territoriali.
Un modello in termini di relazione col territorio e di inserimento dei soggetti in una rete con finalità di empowerment e autonomia.
Al momento il progetto, che ha cambiato varie denominazioni fino ad arrivare all'attuale SAI, accoglie a Trieste circa mille persone, di cui un centinaio in primissima accoglienza.
Una delle strutture di accoglienza, che si occupa proprio di questo, è Casa Malala. Una struttura aperta, la più vicina al confine, che ha avuto anche una funzione di transito nel 2018-2019 con trasferimenti ad altre prefetture, città e centri di accoglienza.
Di Casa Malala ha brevemente illustrato dei tratti caratteristici il suo direttore, Marco Albanese. Anche se apparentemente differente da ciò che afferisce ai modelli di accoglienza diffusa, risponde alle necessità di primissima accoglienza che non si esauriscono in un progetto interno alla Casa. In cosa allora consiste il progetto ex SPRAR, smantellato nel 2018 con i decreti sicurezza e divenuto SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e minori stranieri non accompagnati)?
Lo ha riassunto bene Luisa Fabbro, una delle operatrici nel campo dell'accoglienza e che si occupa della parte finale del percorso.
Con i decreti scompaiono dai radar legislativi i richiedenti asilo che non hanno più diritto ad entrare nel progetto e vengono tagliati tutti i fondi, salvo quelli finalizzati alla mera sussistenza. Con il DL 130 del 2020 c'è un ulteriore superamento della realtà esistente: il SIPROIMI si trasforma in SAI (Sistema Accoglienza ed Integrazione) creando un grosso problema: un grosso divario tra persone in uscita dai CAS (Centri di accoglienza straordinaria) e i posti disponibili nel SAI.
Tra chi cioè vorrebbe provare a fermarsi, grazie alle relazioni instaurate e ai percorsi intrapresi; sì, perché all'inizio del percorso SAI ogni individuo viene preso in carico da un operatore di riferimento. Un operatore che coordina i passaggi di consegne e garantisce continuità lungo tutto lo sviluppo che prevede, come già accennato, un lavoro sull' empowerment. Dopo un primo colloquio mirato alla conoscenza reciproca, si sviluppa un progetto di vita, cui collaborano in rete e con l'individuo l'operatore e un’equipe.
Tra i passaggi: la mediazione, l'apprendimento della lingua (sia tramite lezioni che durante le attività quotidiane), l'assistenza all'inserimento lavorativo e abitativo, all'inserimento scuola dei bambini... Questo permette l'inserimento sociale e cittadino dei soggetti, creando ricchezza immateriale (sociale e culturale), ma anche ricadute sul territorio.
A sostenere i primi passi italiani sono fondi statali, ma il denaro investito ricade sulla città: gli accolti fanno la spesa, acquisti personali e casalinghi nei negozi cittadini (a differenza di molti di noi che acquistano online) Testimone del percorso e di ciò che vivono i migranti è Nuri Nasim, afgano, il cui calvario inizia quando quindicenne parte dall'Afghanistan. Tra tappe in Grecia e in Ungheria, dove le sue richieste di accoglienza non vengono accolte approda in Italia.
Italia dove, dopo un inizio ancora in salita ha una casa e una famiglia italiana e da qualche anno opera con contratto da operatore, nonchè mediatore culturale per l'ICS, accompagnando ragazzi con il suo stesso percorso di vita. D'altronde...Chi meglio di lui può comprendere i suoi conterranei e le necessità e i bisogni di un rifugiato? Sono stati inoltre creati dei partenariati con enti del terzo settore per la realizzazione di progetti specifici dedicati ad azioni di inclusione sociale dei migranti: per quanto riguarda l'inserimento lavorativo in generale oltre alla rete con il terzo settore, esiste anche una legata al tessuto produttivo.
Dati Caritas alla mano, c'è una rete molto importante di aziende ben disponibili ad accogliere tirocini che possono diventare opportunità lavorative (il 50% dei casi, mentre il 30% dei tirocini sfociano in un secondo pagato dalle aziende). In conclusione poche ma chiare sono le richieste e gli spunti su cui un'amministrazione comunale dovrebbe riflettere. L’accoglienza diffusa dei rifugiati a Trieste è dunque un progetto che funziona e che sarebbe potuto diventare il primo modello di accoglienza a gestione totalmente comunale (ce n'è solo uno vero e proprio e si tratta di quello promosso e gestito dal Comune di Bologna): una sperimentazione che a Trieste però non è stata accolta!!
La differenza tra una gestione da parte di un Comune e quella di una Prefettura sta banalmente nel fatto che il primo ha la responsabilità della amministrazione di una città e del benessere di tutti i suoi cittadini/e; la seconda si occupa di ordine pubblico e sicurezza. Dunque, nel primo caso, un rifugiato inserito nel SAI è persona da accompagnare nel percorso di inserimento sociale, sanitario e lavorativo finalizzato alla piena integrazione; nel secondo caso è persona da accompagnare con la prevalente finalità di evitare danni e disordini pubblici.
Ed ancora: un Comune per statuto gestisce, in proprio o con appalti, servizi territoriali di assistenza e si integra con i servizi sanitari, educativi, enti pubblici, del privato sociale, privati e con la comunità, di quello specifico territorio.
Una Prefettura gestisce invece, oltre altre funzioni, centralmente, direttamente o indirettamente, progetti di scala cittadina.
Nel primo caso, di conseguenza, l'interazione con tutti gli altri servizi del territorio è finalità dell’Ente e pratica quotidiana finalizzata all'integrazione sociale; nel secondo caso, invece, essendo i compiti della Prefettura necessariamente diversi,l’integrazione è una eventuale conquista non sempre scontata.
Per concludere: l’accoglienza diffusa dei rifugiati a Trieste è un progetto che va conosciuto, riconosciuto, potenziato, valorizzato e un'esperienza che andrebbe raccontata come un esempio di 'buona pratica', anche fuori dalla regione.